Il 27 luglio è sbarcata su Netflix la settima e ultima stagione di “Orange is the new black” ed io, con colpevole ritardo, ho appena finito di vederla. Eccovi dunque le mie impressioni riguardanti una delle serie TV più “Unconventionally” mai andate in onda.
8Voto KotaWorld.it8Trama10Interpretazione6Finale
NO SPOILER
Partiamo subito dal fatto che forse questa non è una serie adatta a tutti, non lo dico per la presenza di chissà quale scena scandalosa, ma per l’effetto altamente emotivo che può suscitare.
OITNB ti prende emotivamente, ti allieta con scene frivole e passionali per poi d’improvviso metterti davanti a nude e crude realtà che spesso ci sembrano quasi irreali. Quest’ultima reazione non è altro però che un sistema di autodifesa che spesso inconsciamente mettiamo in atto, perché quando una cosa è troppo shockante o brutta da accettare siamo portati a pensare che non sia reale. Purtroppo però la serie prende spunto dal libro di memorie di una vera ex-detenuta Piper Kerman (nella serie “Piper Chapman”) e nasce come denuncia del sistema giudiziario/carcerario americano.
OITNB nella sua interezza tocca vari argomenti scottanti: L’omosessualità, il sistema giudiziario americano, il sistema carcerario, l’ingiustizia, la corruzione, l’economia anteposta ai diritti, l’immigrazione, la violenza, l’indifferenza verso alcune classi sociali, la difficoltà di reinserimento nella società post-carcere. La cosa che colpisce più di tutti però è la fatalità, a cui va incontro chi purtroppo nella vita ha imboccato la strada sbagliata, ritrovandosi in un susseguirsi di situazioni che ne condizionano l’esistenza. Proprio questo forse è il passaggio più duro da digerire e che a fine serie ti lascia quell’amaro in bocca e quel senso di vuoto. Si perché la serie ti fa affezionare ai suoi personaggi… nel giro di poco ti rendi conto che stai chiaramente parteggiando per delle detenute che più o meno meritano di stare in prigione per i reati commessi, speri nella loro redenzione e proprio quando sembra fatta ecco che un incredibile successione degli eventi, anche spesso ingiusti, le fa ricadere nel baratro di una vita che sembra volerle punire per essere nate. Ecco che alla fine di tutto ti continui a chiedere in fondo chissà come se la passerà una piuttosto che un’altra. La fine di questa serie ti lascia un vuoto che non riesci a colmare, perchè riesce a far nascere in te dei sentimenti veri verso i suoi personaggi e le loro vicissitudini, come se quelle persone con quel trascorso esistessero veramente. Ed è proprio quello il punto… in fondo quelle persone esistono, solo che sei tu a ignorarle e quando ti rendi conto di ciò cadi ancor più nello sconforto perché cominci a realizzare che tutto quello che hai visto, anche se ovviamente enfatizzato, è reale.
La fine della serie porta con se degli strascichi positivi verso tutte quelle situazioni di “diversità” trattate, mira ovviamente a svelare quanto sia reale una società eterogenea dove gli stereotipi di normalità si scontrano con l’unicità di ogni individuo. Quelli che ovviamente ne escono malconci da questa rappresentazione sono il sistema giudiziario americano, spesso un po’ troppo veloce nel decidere le sorti di una persona, come se la stessa fosse semplicemente un rifiuto da differenziare, e ovviamente il sistema carcerario che risulta altamente inadeguato e inadempiente.
Serie come questa a mio avviso danno un senso al tempo passato a guardarle perché riescono ad educare il telespettatore e a svilupparne una coscienza critica.